59th International Art Exhibition
Deutscher Pavillon 2022
Quale parte integrante del contributo artistico di Maria Eichhorn e per tutta la durata della Biennale, due volte a settimana vengono proposte visite guidate ai monumenti e ai luoghi di Venezia che ricordano le attività della Resistenza antifascista e la deportazione della popolazione ebraica.
Luoghi di memoria e resistenza
Il collasso dello Stato italiano causato dall’annuncio dell’armistizio l’8 settembre 19431 vide l’Italia centro-settentrionale occupata quasi senza opposizione da parte delle truppe tedesche, che da tempo si erano preparate per questa evenienza. Nelle regioni del Nord, l’occupazione nazifascista si sarebbe protratta fino agli ultimi giorni di guerra, un periodo di quasi due anni dove in ogni territorio, in ogni città, si sviluppò un equilibrio specifico, determinato dai locali assetti militari, sociali, politici ed economici. Questa costante si applica particolarmente a Venezia, caratterizzata da una conformazione unica al mondo, un centro storico sostanzialmente immutato da secoli, completamente “immerso” nella laguna e collegato al resto del mondo solo da un ponte ferroviario e stradale.
Diversamente da quanto avvenuto durante la Grande Guerra, la città non ospitava installazioni militari rilevanti, e quindi fu risparmiata dai bombardamenti strategici alleati (soprattutto dopo che, con la tragedia della distruzione dell’abbazia di Montecassino il 15 febbraio 1944, il comando alleato aveva cominciato a tenere conto del patrimonio artistico nella pianificazione degli obiettivi da colpire). Il fatto che Venezia fosse considerata al sicuro dall’offesa aerea indusse decine di migliaia di profughi da tutta Italia a cercare rifugio in città. Il numero dei residenti salì vertiginosamente, fino a superare le 200.000 unità verso la fine della guerra2.
Si arrivava con motivazioni diverse: molti dipendenti e funzionari pubblici salirono da Roma quando questa fu evacuata dagli uffici governativi in previsione dell’invasione alleata3, al tempo stesso molti fascisti attivi nella lotta antipartigiana si trasferirono per sfuggire alla vendetta dei partigiani quando le zone dove operavano (e molto spesso vivevano) venivano liberate dalle truppe angloamericane e dalla Resistenza. Vi erano poi molti italiani residenti nelle province di Istria e Dalmazia che dovevano abbandonare le proprie abitazioni a causa delle dolorose e complesse vicende legate al confine orientale. Questo insieme di situazioni andavano a fondersi in una città dove si incrociavano fascisti, truppe tedesche, partigiani e potenziali vittime della persecuzione razzista e politica, in una costante lotta per la sopravvivenza.
La Resistenza veneziana era conscia di operare in un contesto ostile, sostanzialmente un ambiente chiuso, con solo due passaggi obbligati per uscire dalla città (la stazione ferroviaria e Piazzale Roma, dove si fermava il traffico stradale) peraltro pesantemente sorvegliati. In più la presenza di profughi favoriva il lavoro di spie e delatori, sempre pronti a carpire informazioni da vendere alle varie milizie fasciste e alla Gestapo. Questo portò alla scelta di una strategia appositamente sviluppata, tesa a evitare il più possibile le azioni violente, per concentrarsi sul sabotaggio, la propaganda antifascista, la raccolta di informazioni utili per il comando alleato e ovviamente la preparazione per l’Insurrezione, quando i partigiani veneziani avrebbero dovuto uscire allo scoperto e prendere il controllo della città per garantirne la sopravvivenza4.
In questa situazione estremamente caotica e in continua evoluzione bisogna ricordare poi la vicenda della comunità ebraica veneziana. Presente in Ghetto da oltre quattrocento anni e completamente integrata con la società cittadina, si trovò per la prima volta a temere per la propria esistenza. Gli arresti di massa del dicembre 1943 segnarono l’inizio del capitolo veneziano dell’Olocausto, con 246 deportati, in massima parte mai più tornati dai campi di sterminio5.
Occupazione, Resistenza, persecuzione, hanno lasciato delle tracce in città6, lo scopo dei testi seguenti è quello di proporne alcune, a volte quasi nascoste, altre volutamente dedicate a quel periodo terribile, che pure è stato alla base della rinascita democratica e sociale di un paese che usciva stremato da vent’anni di fascismo e due di guerra civile.
Testi: Giulio Bobbo
1 Attraverso l’armistizio di Cassabile con gli alleati, il Regno d’Italia si staccò dall’alleanza con la Germania nazista.
2 Cfr. G. Bobbo, Venezia in tempo di guerra, 1943–1945, Il Poligrafo, Padova 2005, p. 430.
3 Circa il trasferimento dell’apparato istituzionale della RSI al nord cfr. M. Borghi, Tra fascio littorio e senso dello Stato, funzionari, apparati, ministeri nella Repubblica sociale italiana, 1943–1945, CLEUP, Padova Padova, 2001.
4 Il maggior organizzatore delle attività cospirative a Venezia, Giuseppe Turcato, curò diverse raccolte di testimonianze sulla Resistenza in laguna, cfr. G. Turcato e A. Zanon dal Bo, 1943–1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, Comune di Venezia, Venezia 1976.
5 Per una storia della Comunità ebraica tra leggi razziali ed olocausto cfr. R. Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia, 1938–1945: una comunità tra persecuzione e rinascita, Venezia, Il Cardo, Venezia 1995.
6 Una mappa completa di tutti i luoghi legati all’occupazione nazifascista e alla Resistenza è disponibile sul sito dell’Iveser: https://www.iveser.it/risorse-on-line/luoghi-della-memoria.
Il Ghetto rappresenta da oltre cinque secoli il fulcro della comunità ebraica locale. Con la fine della Repubblica di Venezia nel 1797 questo particolare quartiere veneziano smise di essere un luogo di segregazione, ma continuò a svolgere un ruolo importante per l’identità culturale e religiosa degli ebrei veneziani.
L’avvento delle leggi razziali promulgate nel 1938 sorprese gli ebrei veneziani che, completamente assimilati nel tessuto sociale cittadino, si trovarono di colpo privati dei propri diritti e posti ai margini dell’Italia fascista. Molti adulti persero il lavoro, mentre gli studenti di ogni scuola e università vennero cacciati da un giorno all’altro1.
La situazione, già difficile per queste limitazioni, diventò improvvisamente pericolosa quando le truppe tedesche occuparono la città nel settembre 1943, in seguito agli eventi armistiziali. Il primo segno della tragedia imminente arrivò il 17 settembre con il suicidio del presidente della Comunità ebraica Giuseppe Jona, che decise in questo modo di sottrarsi all’ordine ricevuto dai nazisti di consegnare le liste dei membri della comunità2.
Meno di tre mesi dopo, il 5 dicembre 1943, venne effettuata la prima grande retata. Organizzata dai tedeschi ed effettuata dalla polizia italiana, portò alla cattura di oltre duecento ebrei residenti a ogni titolo a Venezia. Alcuni di loro vennero rinchiusi proprio nell’area del Ghetto, prima di essere avviati al campo di trasferimento di Fossoli, la destinazione successiva sarebbe stata Auschwitz. Una seconda serie di arresti si verificò tra l’agosto e l’ottobre del 1944, quando vennero prelevati gli anziani della casa di riposo e poi i degenti dell’Ospedale Civile e dei manicomi di San Servolo e San Clemente. Dei 246 ebrei deportati da Venezia, solo otto riuscirono a fare ritorno.
Nell’area del Ghetto vi sono diversi monumenti dedicati alla memoria delle vittime dell’Olocausto, tra cui il monumento “L’ultimo treno”, 1979, creato da Arbit Blatas, dove sono iscritti il nome e l’età dei deportati razziali veneziani, e diverse Stolpersteine (pietre d’inciampo) posate sia di fronte alla casa di riposo che alle abitazioni dei singoli individui.
1 Per una storia della Comunità ebraica veneziana del periodo, cfr. Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia, 1938–1945.
2 Sulla facciata della casa di riposo israelitica, in Campo del Ghetto Nuovo, è stata posta una lapide dedicata al sacrificio di Giuseppe Jona.
In una città come Venezia, letteralmente circondata dall’acqua e collegata alla terraferma solo da un ponte translagunare, l’importanza della stazione di Santa Lucia nel periodo dell’occupazione nazifascista della città è ovviamente strategica, visto che la scarsità di carburante e il pericolo delle incursioni dei cacciabombardieri alleati rendevano ogni altra forma di collegamento precaria e pericolosa. La stazione diventava quindi un passaggio obbligato per chiunque volesse lasciare o entrare nella città. In un contesto come quello della Resistenza, si trattava di una situazione estremamente rischiosa, visto che a fascisti e tedeschi sarebbe bastato aspettare un ricercato, se una soffiata ne annunciava il suo transito in città. Malgrado tutto fu proprio in quest’area che iniziarono le prime attività cospirative contro l’occupazione nazifascista, organizzate da una figura particolare come quella di Bartolomeo Meloni.
Meloni prestava servizio nelle Ferrovie come ispettore principale nel Compartimento di Venezia, un incarico prestigioso che ricopriva da più di sedici anni e che avrebbe potuto tenerlo al riparo dalle incertezze che incombevano su tanti italiani di quel periodo. Ciò nonostante, Meloni strinse contatti con i rappresenti dei partiti antifascisti a Venezia ancora prima degli eventi armistiziali, e al tempo dell’occupazione tedesca si mise subito al lavoro per aiutare i tanti militari italiani che si erano trovati intrappolati in città, caricandoli sui vagoni in uscita dalla stazione per poi farli scendere in terraferma, dove maggiori erano le possibilità di tornare verso casa. Allo stesso tempo insieme ad altri ferrovieri si dedicava a opere di sabotaggio, cercando di frenare l’afflusso di convogli carichi di truppe e rifornimenti nazisti in arrivo dal Brennero, che poi dovevano continuare verso il fronte nel sud d’Italia.
Purtroppo le attività di Meloni, tanto concentrate nel tempo e fin troppo efficienti attirarono l’attenzione della Gestapo, che lo arrestò il 4 novembre 1943 e lo rinchiuse in isolamento nel Carcere di Santa Maria Maggiore. Da lì Meloni sarebbe uscito, insieme al suo collaboratore Lindoro Rizzi, solo per essere deportato nel campo di concentramento di Dachau, da cui non fece più ritorno1.
A Meloni, Rizzi e altri ferrovieri caduti durante la lotta di Liberazione è dedicato un monumento al binario 8 della Stazione di Venezia.
1 Sulla figura di Meloni, cfr. Rita Arca, Notte e nebbia a Dachau, Bartolomeo Meloni tra storia e memoria, Iskra, Ghilarza 2021.
Nei regimi autoritari le carceri hanno sempre rappresentato un luogo simbolo della repressione politica e sociale contro dissidenti ed emarginati in genere. Anche la prigione di Santa Maria Maggiore, a pochi passi da Piazzale Roma, ha visto dentro le sue mura alternarsi centinaia di prigionieri politici e razziali, rappresentando in molti casi l’inizio di un viaggio che si sarebbe concluso tragicamente nei campi di concentramento e sterminio.
Fin dalle prime settimane dell’occupazione nazifascista, nelle celle del carcere cominciarono ad affluire figure legate all’antifascismo veneziano: in qualche caso si trattava di arresti cautelativi (come ad esempio quello del futuro sindaco comunista Giobatta Gianquinto), risoltisi in un successivo rilascio, altri come Bartolomeo Meloni o Giordano Bruno Rossoni1 sarebbero stati meno fortunati.
Un capitolo particolarmente tragico riguarda le centinaia di ebrei veneziani tradotti in carcere2 dopo la prima terribile retata contro la comunità israelitica veneziana nel dicembre 1943, a cui sarebbero seguiti, nei mesi successivi, singoli individui o famiglie arrestati in seguito a delazioni e attività investigative delle varie polizie tedesche.
Da Santa Maria Maggiore uscirono quasi tutti i partigiani vittime delle rappresaglie consumate nell’estate del 1944, prima i 13 fucilati dalla Guardia Nazionale Repubblicana sulle rovine di Ca’ Giustinian, poi tutti i 7 passati per le armi in Riva dell’Impero (oggi Riva dei Sette Martiri)3.
Negli ultimi giorni di guerra il carcere si guadagnò un ruolo di primaria importanza per la salvaguardia di Venezia: la sera del 26 aprile 1945, approfittando di un allarme aereo, i detenuti politici in accordo con alcune guardie penitenziarie si impadronirono della struttura, innescando l’Insurrezione che avrebbe portato le forze partigiane veneziane a liberare la città, prima dell’arrivo delle truppe alleate4.
1 Rossoni era sbarcato con una radio per garantire lo scambio di informazioni tra la Resistenza nel Veneto e i comandi alleati nel Sud Italia.
2 2 E’ stata realizzata una lista (per ora parziale) dei detenuti politici e razziali passati per il carcere grazie all’analisi dei registri matricolari, più informazioni su: https://www.iveser.it/attivita/progetti-ricerca/registri-matricola-carcere-1943-1945.
3 Sulle varie azioni partigiane effettuate nell’estate del 1944 cfr. Bobbo, Venezia in tempo di guerra, Il Poligrafo, Padova 2005, pp. 279–371.
4 Ivi, pp. 438–441.
Venezia è una città che ha trovato il proprio successo grazie al commercio marittimo, non è strano quindi che una delle sue infrastrutture più importanti sia proprio quella del porto.
Nel periodo seguito all’annessione con il Regno d’Italia era stata costruita negli anni 1869–1880, alle spalle della zona di Santa Marta, un’ampia area portuale destinata sia al traffico mercantile che a quello passeggeri. Nel corso della seconda guerra mondiale l’afflusso delle navi in arrivo e partenza a Venezia era ovviamente diminuito a causa delle attività belliche, ma l’importanza strategica del porto rimaneva cruciale. Di questo fatto si ebbe una tragica dimostrazione nelle settimane successive all’occupazione tedesca, quando decine di navi catturate arrivarono in porto, piene di militari italiani catturati nei Balcani e portati a Venezia per essere poi caricati sui treni diretti verso i campi di concentramento nell’Europa occupata.
La voce che centinaia di prigionieri italiani venivano trattenuti sulle navi e nella Stazione Marittima non tardò a dilagare in città e tanti cittadini veneziani si prodigarono per aiutare questi sventurati. Ci fu chi, a bordo di piccole barche, rifocillava i soldati bloccati sulle navi con acqua e cibo1, mentre alcuni coraggiosi riuscirono a intrufolarsi nella zona del porto per prelevare alcuni prigionieri, per poi farli uscire con documenti falsi2. Si trattò di una delle prime forme di Resistenza popolare all’occupazione nazifascista appena iniziata.
Le infrastrutture portuali tornarono a essere protagoniste della lotta di Liberazione nel corso degli ultimi giorni di guerra, quando in piena Insurrezione, le truppe tedesche tentarono di applicare la ormai famigerata politica della “terra bruciata”, tesa a distruggere i punti vitali della città prima di ritirarsi. Il tentativo fu però vanificato dall’intervento dei partigiani della Brigata “Biancotto”, che impedirono la detonazione delle cariche di demolizione già posate, consentendo alla città di sopravvivere intatta alla fine delle ostilità3.
1 Fra loro la staffetta partigiana Ida D’Este, che compose una poesia legata a questi momenti difficili, cfr. I. D’Este, Un gruppo di giovani che attendono dal cielo, in G. Turcato e A. Zanon Dal Bo (a cura di), 1943–1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, Comune di Venezia, Venezia 1976, p. 507.
2 Cfr. Bobbo, Venezia in tempo di guerra, 1943–1945, Il Poligrafo, Padova 2005, pp. 72–73.
3 Ivi, p. 447.
L’Ospedale Civile, situato all’inizio del popoloso sestiere di Castello in Campo SS. Giovanni e Paolo, rappresenta ancora oggi la struttura sanitaria più importante nel centro storico veneziano. La sua importanza nel tessuto sociale cittadino fece sì che anche tra le sue mura si verificassero alcuni eventi legati al difficile contesto politico e militare dell’epoca.
Fu proprio nel reparto “penitenziario”, dedicato alla cura di detenuti provenienti dal carcere che le truppe tedesche prelevarono alcuni ebrei, nel corso dell’ultima retata collettiva tesa a deportare i membri della locale comunità ebraica nei campi di sterminio. Il 7 ottobre 1944 ventinove pazienti presenti negli ospedali veneziani (oltre al Civile c’erano anche pazienti dei Manicomi di San Servolo e San Clemente) vennero strappati dai loro letti e caricati su un convoglio che, dopo una fermata a Trieste, si sarebbe diretto in Polonia1.
Furono trattenuti in Ospedale anche alcuni membri della Resistenza, piantonati da guardie fasciste. Per salvare uno di loro venne architettato un piano decisamente originale; il 5 ottobre 1944 il dottor Angelo Morelli, trattenuto sotto scorta in Ospedale, fu liberato grazie all’azione di tre staffette della Brigata “Biancotto”. Queste, durante una visita all’ammalato, offrirono ai suoi carcerieri un dolce “trattato” con dei sonniferi, permettendo al prigioniero di dileguarsi2.
Nel periodo cruciale dell’Insurrezione alla fine di aprile 1945 alcuni fascisti tentarono di impadronirsi dei partigiani lì detenuti come pazienti, allo scopo di usarli come ostaggi in quei momenti estremamente concitati. Questo rischio fu sventato da un contingente di partigiani che, occupato l’Ospedale, misero in fuga gli aggressori3.
1 Cfr. R. Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia, 1938–1945, Il Cardo, Venezia 1995, pp. 160–161.
2 G. Turcato, Un condannato a morte è fuggito, 5 ottobre 1944, in G. Turcato e A. Zanon Dal Bo (a cura di), 1943–1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, Comune di Venezia, Venezia 1976, pp. 243–249.
3 Cfr. T. Pignatti, L’opera del Comando Piazza del CVL nella liberazione di Venezia, in G. Paladini, M. Reberschak (a cura di), La Resistenza nel Veneziano, vol. II Documenti, Comune di Venezia, Venezia 1985, p. 350.
Il collasso militare legato agli eventi armistiziali comportò una serie di conseguenze catastrofiche non solo per le forze armate italiane, anche per l’intera popolazione italiana. Persone di tutte le età, che fino a quel momento non erano state coinvolte dalla guerra, si ritrovarono di colpo in situazioni difficili, e molto spesso pericolose. Un buon esempio è rappresentato dai “Marinaretti”1della Celestia.
La “Regia Scuola Macchinisti e Tecnici Meccanici” venne fondata dalla Regia Marina2 nell’ex convento della Celestia, adiacente all’Arsenale, pochi anni dopo l’annessione di Venezia al Regno d’Italia (1866). Il suo scopo era quello di formare giovani allievi che poi sarebbero entrati in Marina come meccanici e specialisti. In un contesto sociale difficile come quello dell’Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento si trattava di un’occasione importante per molti ragazzi, che infatti arrivavano a Venezia da tutto il paese per ricevere vitto, alloggio e istruzione.
La storia di questa scuola finisce bruscamente con l’arrivo di due motosiluranti tedesche i cui marinai, nella confusione generale seguita all’armistizio, occuparono facilmente la città3. Una volta arrivati alla scuola, i tedeschi considerarono gli allievi, che erano vestiti con uniformi simili a quelle dei marinai adulti, come militari nemici da catturare e avviare ai campi di concentramento. Il comandante della Scuola cercò di spiegare che i suoi ragazzi erano minorenni e non avevano ricevuto alcun addestramento prettamente militare, senza però alcun successo.
I “marinaretti” furono fatti uscire dalla scuola scortati da sentinelle tedesche e condotti verso la stazione di Santa Lucia. Qualcuno di loro riuscì a fuggire durante il tragitto, ma molti furono caricati sui treni diretti verso l’Europa occupata, non tutti tornarono. Oggi una lapide ricorda, in Campo de la Celestia, la scuola e i ragazzi che la frequentarono fino alla sua fine tragica.
1 Ovvero “piccoli marinai”, perchè i giovani allievi della scuola erano vestiti come marinai dell’epoca.
2 Così era chiamata la Marina Militare Italiana dal 1861 al 1946.
3 Cfr. E. Bagnasco, F. Petronio, Una incredibile “crociera di guerra” nell’Adriatico, in “Storia Militare”, n. 4, gennaio 1994, pp. 11–18.
L’Arsenale di Castello rappresentava, ai tempi della Repubblica della Serenissima, il fulcro del potere marittimo veneziano. La sua rilevanza strategica come base militare andò progressivamente scemando nel corso delle varie dominazioni straniere e in modo più marcato nella prima metà del Novecento, ma all’epoca dell’Armistizio, nel settembre 1943, rivestiva ancora una certa importanza come centro di riparazione di unità minori della Regia Marina, e al suo interno lavoravano centinaia di “arsenalotti”, gli operai che da secoli si occupavano del lavoro di costruzione e raddobbo delle navi1.
L’arrivo delle prime unità navali tedesche l’11 settembre vide l’Arsenale occupato senza colpo ferire, a causa della confusione e dell’anarchia militare seguite all’annunzio dell’armistizio. Nei giorni immediatamente precedenti era stato tuttavia possibile prelevare armi e munizioni, che a tempo debito sarebbero state inviate alle prime formazioni partigiane sulle montagne. Dall’Arsenale uscì anche l’esplosivo usato per distruggere il comando della GNR2 a Venezia, sempre grazie alla collaborazione degli arsenalotti, che erano in buona parte accesi antifascisti3.
Il possesso di questa struttura militare, sicuramente la più importante nel centro storico veneziano, era fondamentale per una buona riuscita dell’Insurrezione tesa a liberare la città dall’occupazione nazifascista. Fu così che il 28 aprile 1945 tra le antiche mura della base navale si verificarono una serie di scontri tra i tedeschi che cercavano di distruggere le varie installazioni e i depositi di munizioni e i partigiani della Brigata. “Biancotto”, determinati ad impedirlo4. Nel pomeriggio dello stesso giorno il tricolore nazionale sventolava sulla torretta di sinistra, segno che le truppe naziste erano state sloggiate e l’Arsenale (così come il resto della città) era salvo.
1 Cfr. G. Bobbo, Venezia in tempo di guerra 1943–1945, Il Poligrafo, Padova 2005, pp. 66–67.
2 Guardia Nazionale Repubblicana, una sorta di polizia politica che aveva preso il posto dei Carabinieri dopo la nascita della Repubblica Sociale Italiana.
3 Cfr. G. Chinello, Giovanni Tonetti il “conte rosso”, Contrasti di una vita e di una militanza (1888–1970), Supernova, Venezia 1997, p. 48.
4 Cfr. Diario Storico della Brigata “Francesco Biancotto”, in G. Paladini, M. Reberschak, La resistenza nel veneziano cit., vol. II Documenti, p. 402.
Nella notte tra l’1 e il 2 agosto 1944 un marinaio della Kriegsmarine, impiegato come sentinella su delle unità ormeggiate sulla Riva dell’Impero1, scomparve senza lasciare traccia. All’epoca l’attività resistenziale in tutta l’Italia era molto elevata, visto che gli eserciti alleati stavano avanzando verso il Nord Italia, e si pensò quindi che la sentinella fosse caduta vittima di un attentato partigiano. Le autorità naziste, che normalmente a Venezia delegavano la lotta partigiana ai fascisti della RSI, decisero di gestire direttamente la situazione, e organizzarono una rappresaglia2.
Nel corso della notte tra il 2 e il 3 agosto, truppe tedesche isolarono l’area attorno a Via Garibaldi a Castello, immediatamente alle spalle della zona dove si pensava si fosse consumato l’attentato. Centinaia di persone vennero svegliate, fatte uscire dalle proprie case e concentrate sulla Riva dell’Impero.
Alle prime luci dell’alba arrivò una lancia con sette prigionieri, destinati alla fucilazione: tra loro figuravano Alfredo Vivian, comandante partigiano veterano della guerra di Spagna e i fratelli Alfredo e Luciano Gelmi, che come residenti a Trento risultavano renitenti alla leva tedesca.
Dopo la fucilazione, tutti i maschi tra i 16 e i 60 anni rastrellati durante la notte vennero inviati al Carcere di Santa Maria Maggiore e trattenuti come ostaggi. Il corpo della sentinella venne recuperato in laguna nei giorni successivi, l’autopsia rivelò che il marinaio, ubriaco, era caduto in acqua dove era annegato. Gli ostaggi vennero tutti rilasciati subito dopo.
1 Costruita come parte del progetto della “grande Venezia” del Conte Volpi, fu inaugurata nel 1937, e intitolata al cosiddetto Impero conquistato dopo la guerra d’Etiopia vinta nel 1936.
2 Per approfondire la storia della rappresaglia cfr.: G. Turcato, Plotone di esecuzione sulla Riva dell’Impero. 3 Agosto ’44, in G. Turcato e A. Zanon Dal Bo (a cura di), 1943–1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, Venezia, Comune di Venezia 1976, pp. 235–242.
La lotta di Liberazione nel 1943–45 fu un momento fondamentale per la società italiana sotto diversi aspetti. Non si trattò solo di una guerra “asimmetrica” tesa alla liberazione del paese dalle truppe naziste, ma anche di un movimento deciso a rivoluzionare gli assetti politici e sociali di una società che arrivava da vent’anni di dittatura fascista. Una delle conquiste più importanti di questo periodo è legata al ruolo delle donne nella società moderna.
Per la prima volta “staffette”1 e partigiane avevano partecipato attivamente a fianco degli uomini con pari dignità, mettendo almeno in discussione le basi della società patriarcale imperante fino ad allora. Fu partendo da queste basi che, nel 1953, l’Istituto per la storia della Resistenza delle Tre Venezie, presieduto da Egidio Meneghetti2, decise di dedicare un monumento alle partigiane che avevano combattuto nella Resistenza. Venne nominata una commissione che assegnò la realizzazione dell’opera allo scultore toscano Leoncillo3.
Una prima copia del monumento in ceramica policroma, che raffigurava una partigiana armata, fu rifiutata dalla committenza a causa del colore rosso del suo fazzoletto, che sembrava richiamare un’appartenenza politica specifica. Una seconda copia fu posata su un piedistallo di calcestruzzo disegnata da Carlo Scarpa, e inaugurata ai Giardini della Biennale l’8 settembre 19574. Questa installazione tuttavia era destinata ad avere vita breve: la notte del 27 luglio 1961 una bomba piazzata da elementi neofascisti distrusse completamente la statua.
Il Comune di Venezia decise successivamente di acquistare la prima copia (ancora nello studio di Leoncillo) ed esporla all’interno della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, dove è tuttora visibile. Il piedistallo del monumento di Carlo Scarpa, rimasta sostanzialmente intatta, rimane nel luogo originario di installazione.
1 Il termine “staffetta” definiva una partigiana impiegata soprattutto nella comunicazione tra le varie formazioni partigiane, così come al trasporto di armi e materiali e ad attività di supporto, soprattutto nei centri abitati dove le donne potevano muoversi più liberamente, essendo esenti dall’obbligo di leva.
2 Meneghetti era stato lui stesso partigiano, arrestato e torturato dai fascisti della “Banda Carità”. Nel dopoguerra avrebbe composto una poesia, La partigiana nuda, che affronta il tema del sacrificio di tante partigiane catturate dai fascisti.
3 Leoncillo Leonardi (1915–1968) era stato anch’egli partigiano durante la Resistenza. Nel dopoguerra riprese in diverse opere il tema della lotta di Liberazione. Si spense prematuramente a Roma a soli 52 anni.
4 Per una storia completa del monumento di Leoncillo cfr. M. T. Sega, a cura di, La partigiana Veneta, arte e memoria della Resistenza, Portogruaro, Nuovadimensione, Portogruaro 2004.
Una delle tante tragedie causate dal collasso politico-militare dell’8 settembre 1943 è l’odissea degli Internati Militari Italiani1.
Come è ben noto, immediatamente dopo l’annuncio dell’armistizio da parte del Generale Badoglio le truppe tedesche misero in atto l’operazione “Achse”, il cui scopo era impadronirsi di tutti i territori sotto il controllo delle forze armate italiane, sia quelli nazionali che quelli occupati durante la guerra. Nell’arco di circa dieci giorni, un numero relativamente esiguo di truppe tedesche riuscì nel compito affidato, occupando la penisola italiana fino all’altezza di Napoli, e catturando oltre 800.000 militari italiani2.
Una volta finita la guerra, questo vero e proprio esercito dietro il filo spinato cominciò a tornare in Italia da tutte le parti del mondo3. Quasi immediatamente venne fondata l’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia (ANRP) il cui scopo era quello di identificare i prigionieri di entrambi gli schieramenti ed aiutarli nel ricevere quel poco aiuto che una nazione prostrata dalla guerra poteva garantire.
Nel 1950, la sezione veneziana dell’ANRP presentò un progetto per costruire e dedicare ai caduti in prigionia un monumento da porre ai Giardini di Castello, fin dall’Ottocento il principale spazio cittadino deputato alla monumentalistica civile e patriottica. Così i progettisti spiegavano la scelta della figura mitologica raffigurata, in bassorilievo, sulla stele in pietra d’Istria: “il Prometeo, incatenato da Giove per aver rapito al cielo il fuoco, sta a simboleggiare la volontà indomita che non si piega a nessuna tirannide: preferisce la sofferenza e la morte”4.
Il progetto fu approntato dall’ingegner Angelo Forcellini Merlo, presidente dell’ANRP di Venezia, mentre la parte scultorea fu affidata all’artista Angelo Franco. Grazie a una sottoscrizione pubblica fu possibile finanziare la costruzione del monumento, che venne inaugurato e donato alla città il 30 settembre 1951.
1 Questa denominazione (spesso abbreviata in IMI), venne ideata dalle autorità tedesche per negare ai militari italiani lo status di Prigionieri di Guerra e di conseguenza la tutela della Convenzione di Ginevra e della Croce Rossa.
2 Di questi, oltre 600.000 vennero trasferiti nei campi di prigionia nell’Europa occupata. Per la storia degli IMI cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, 1943–1945: traditi, disprezzati, dimenticati, Ufficio Storico SME, Roma 1992.
3 Oltre ai circa 600.000 IMI finiti in Germania bisognava considerare i 520.000 prigionieri di guerra in mano alleata, detenuti nell’Impero britannico, USA e Unione Sovietica.
4 Circa la storia del monumento cfr. R. Bonometto, Giardini di memorie. Recupero della memoria storica: giardini di Castello, Editore Filippi, Venezia 2008.
La bomba fascista che distrusse nel 1961 il monumento di Leoncillo dedicato “Dal Veneto alle sue partigiane” costituiva una provocazione che non poteva essere ignorata. La giunta comunale decise quindi di dedicare un secondo monumento alle partigiane che avevano combattuto la lotta di Liberazione nel Veneto.
Dopo la presentazione di vari bozzetti, un’apposita commissione composta da rappresentanti di diverse istituzioni cittadine (tra cui le varie associazioni partigiane) decise di assegnare l’incarico allo scultore cadorino Augusto Murer1 , autore di diversi monumenti dedicati alla Resistenza, dentro e fuori il Veneto.
Il monumento, inaugurato il 25 aprile 1969, l’Anniversario della Liberazione, raffigura una donna ormai senza vita, con le mani legate, distesa di fronte alla laguna su una base di ferro e pietra progettata da Carlo Scarpa. Questa scelta dello scultore si rifaceva a una pratica intimidatoria frequentemente usata dalle truppe nazi-fasciste: si gettava il corpo di un resistente ucciso nel fiume, perché questo scendesse a valle, e potesse essere visto da più gente possibile (a monito di ciò che poteva succedere ai “ribelli”), prima di perdersi in mare, negandone così la sepoltura2.
Nelle intenzioni di Murer, la statua, fissata su una piattaforma metallica che avrebbe dovuto servire da galleggiante, avrebbe dovuto restare sempre a pelo dell’acqua, tuttavia, il meccanismo non funzionò mai a dovere, e la statua viene coperta o esposta dalle onde a seconda della marea.
1 Nato a Falcade nel 1922, partecipò alla Resistenza nel bellunese con la Brigata “Fratelli Fenti”, nel dopoguerra fu un apprezzato scultore ed incisore, conosciuto per la forza espressiva delle sue opere. Si spense a Padova nel 1985.
2 Questo uso dei cadaveri dei partigiani è ricordato nell’episodio finale del film Paisà, diretto da Roberto Rossellini nel 1946. Un gruppo di partigiani e militari alleati attivi nella zona di Porto Tolle recupera un cadavere galleggiante (contrassegnato da un cartello con scritto “partigiano”) e gli presta sepoltura.
Quale parte integrante del contributo artistico di Maria Eichhorn e per tutta la durata della Biennale, due volte a settimana vengono proposte visite guidate ai monumenti e ai luoghi di Venezia che ricordano le attività della Resistenza antifascista e la deportazione della popolazione ebraica. La prima visita guidata si svolgerà il 28 aprile 2022, in occasione del 77° Anniversario della Liberazione di Venezia dall’occupazione tedesca da parte degli Alleati, avvenuta il 28 aprile 1945. I tour cittadini sono organizzati in collaborazione con l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser), accompagnati da Giulio Bobbo e Luisella Romeo.
Le visite guidate si svolgono in lingua inglese (oppure, su richiesta dell’intero gruppo dei partecipanti, anche in lingua italiana).
(o in italiano se richiesto dall’intero gruppo di partecipanti).
I tour con l’indicazione “italiano” saranno in italiano.
La partecipazione è gratuita.
Si applica la normativa vigente sul Coronavirus.
Per qualsiasi domanda sulle visite guidate, non esitate a contattare tour@deutscher-pavillon.org.
Tour A
Ghetto ebraico
Tour B
Stazione ferroviaria di Santa Lucia
Carcere di Santa Maria Maggiore
Stazione Marittima
Tour C
Arsenale
Riva dei Sette Martiri
Monumento alla partigiana veneta (Leoncillo)
Monumento agli Internati e prigionieri di guerra italiani
Monumento alla partigiana (Murer)